Ma è solo un attimo

Non dimenticherò mai quel giorno. Quando mi dicesti “Sono innamorato, ma non ti amo”.

Con una frase a effetto che assomigliava a una pugnalata al cuore inferta con la mano sinistra – tu sei mancino –  e un cerotto posato sulla ferita con la mano destra, mi dicesti addio. A modo tuo.

Quella frase mi ha impedito per molti anni di voltare pagina, sempre in attesa che il tuo innamoramento diventasse amore.

Perché continuasti a cercarmi e io farmi trovare.

Perché continuai a cercarti e tu a farti trovare.

E ogni volta si alimentava  la mia ossessione di noi.

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Non mi ama però è innamorato, dicevo invertendo l’ordine dei fattori all’interno del tuo assioma, aggrappata  alla speranza che il tuo innamoramento potesse trasformarsi in amore.

Toccava a me.

Sì toccava a me operare quella trasformazione. Dovevo riuscire a farti capire che ero la donna giusta per te.

Continuai a cercarti e tu a farti trovare.

Dopo l’amore mi guardavi con occhi adoranti.

Poi fuggivi.

Ma tornavi e ti alimentavi della mia energia per affrontare le tue battaglie in un altro dove.

Mentre io  restavo svuotata ad aspettarti, senza capire.

E iniziai a impazzire.

Perché eri innamorato ma non mi amavi.

Per anni ho raccolto i tuoi pensieri, i tuoi dubbi, i tuoi desideri e le tue paure. Ho seguito le tue elucubrazioni perdendomi tra i labirinti creati dalla tua mente, tra le riflessioni tortuose e sterili, tra il nulla che mi restava dopo.

Quand’è che tutto si è trasformato in rabbia? Non lo so. È stato poco alla volta, man mano che non mi impedivo di farmi torturare dal tuo essere ambiguo.

Iniziai a seguirti, a cercarti, a tempestarti di telefonate e tu iniziasti a nasconderti, a negarti.

Venni a battere i pugni sulla tua porta. Sapevo che c’eri ma non apristi. Me ne andai ma solo per aspettarti nascosta in un angolo e quando finalmente uscisti ti venni incontro con la mia furia.

Bastò un tuo sguardo avverso e le tue parole “ Mi deludi” a farmi arretrare. Mentre la furia, non paga, mi dilaniò le viscere.

Faticosamente cercai di dimenticarti e pregai che quel tempo in apnea passasse in fretta.

Quando mi telefonasti, c’ero quasi riuscita.

“Ho bisogno del tuo aiuto” dicesti. E io corsi da te.

“Ho bisogno del tuo amore per riuscire a liberarmi di lei e fare l’unica scelta possibile”.

Mi baciasti e la mia anima riprese a gravitare intorno alle tue incertezze.

Fino a oggi.

— Sei scomparso di nuovo.

—Abbiamo dovuto fare un viaggio.

—Che tipo di viaggio.

—Un viaggio di nozze.

— L’avevo saputo.

—Perdonami.

— E di che?

—Perdonami.

— Ti ho portato un regalo.

— Non dovevi

— È un regalo di addio. Ora che sei sposato non ci vedremo più.

— Ma io voglio continuare a vederti!

Sorrido e infilo la mano nella borsa, sorridi anche tu.

Sgrani gli occhi, sorpreso.

Non ti aspettavi questo regalo.

Ma è solo un attimo.

Il tempo di esplodere tutti i colpi del caricatore.

 

 

 

L’altra metà del calcio

imagesQuando l’ho conosciuto avrei dovuto capirlo.

«Ciao, io sono Aldo, ma tutti mi chiamano Toluca».

«Ciao, io sono Ines, ma Toluca non è una città del Messico?»

«Brava, e tutti mi chiamano Toluca perché  3 anni fa a Toluca si sono tenuti i mondiali di calcio  e anche se non abbiamo vinto la coppa del mondo siamo arrivati secondi. Ma ti rendi conto? Contro il Brasile a 2.800 metri di altezza. No, dico, ti rendi conto?»

«Certo», risposi, anche se in realtà io di calcio non ne capivo niente, ma di ragazzi sì e lui era proprio il mio tipo. Pelle olivastra, capelli neri , lunghi.  In effetti aveva un che di sudamericano.

«Sono un attaccante e tutti mi vogliono in squadra perché sono bravo, anzi sono il migliore».

Sì, avrei dovuto capirlo, ma io appartengo a quella categoria di donne romantiche disposte a tutto per amore.

Cominciai a frequentare i campetti di calcio, ad andare allo stadio la domenica, ad uscire in gruppo con i suoi amici che, a sentirli parlare,  sembravano Herrera,  Valcareggi  e  Maldini messi insieme. Avevamo anche un appuntamento fisso con la Domenica Sportiva e le partite di Serie A, la Coppa Italia e la Coppa dei Campioni, la Coppa Uefa, gli Europei ed i Mondiali e sicuramente ne dimentico qualcuno. D’estate si giocava  a Malcarne  e quando in qualsiasi stagione non si poteva scendere in campo si giocava a Subbuteo. Qualche volta è capitato anche a me di esaltarmi per la vittoria della Nazionale, in genere accadeva durante i mondiali quando  ci si riuniva in casa di qualcuno che aveva la televisione a colori e, anche se di calcio continuavo a non capirne  niente, mi piaceva quel modo di sentirsi  parte di un popolo. E poi ero giovane ed era bello entusiasmarsi.

Col passare degli anni il calcio ha inondato tutta la mia vita: magliette e tute sporche di fango da lavare, ferite da curare, serate a teatro a cui rinunciare perché c’era la partitella con gli amici e non so come è accaduto, ma ci siamo allontanati. Siamo diventati  due mondi a parte, lui davanti alla TV  a guardare la partita del momento, io in camera a leggere un libro. Allo stadio non ci sono andata più e quando lui aveva il calcetto io  uscivo con le amiche. Aveva smesso di spiegarmi le regole del gioco e le partite importanti le andava a vedere al Pub. E alla fine ognuno è andato per la sua strada.

 Mi sono sempre domandata cosa rappresenta il calcio per tanti  uomini, qualcuno ha cercato di spiegarmelo, qualcun altro ci ha scritto un libro. E va bene, va bene tutto, il sogno, l’agonismo, l’ambizione, la memoria dell’infanzia e della gioventù, lo spirito di gruppo e tante altre cose ancora, diverse per ognuno.

«Ma l’amore no!» ho detto rabbiosa « di quell’amore sono gelosa, di quella luce che brilla negli occhi  dopo una partita vinta, di quell’urlo orgasmico che segue un goal, di quell’ansia prima di un incontro, di quella sofferenza dopo una sconfitta! Quante volte mi sono sentita messa da parte per una partita di calcio».

«Io non amo il calcio» mi ha risposto Mauro, mentre chiamava  il cameriere per ordinare il dolce.

«Non dirmi che non nutri una passione per qualcosa» gli ho domandato.

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«Mi  piace viaggiare, leggere, andare a teatro, guidare la moto, mi piace l’arte e la musica, il moto GP, andare al cinema. Mi piace nuotare e adoro il buon vino e la buona cucina e mi piacciono le donne belle e intelligenti come te».

 Avrei dovuto capirlo che se non era il calcio era la moto, ma lui mi stava accarezzando la mano  e mi guardava con adorazione e…

Accidenti!

 

 

Una terra bellissima

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Un pomeriggio di sole, vicino ad una finestra, una bambina prende un foglio bianco ed inizia a disegnare. La sua piccola mano, nella parte alta del foglio, traccia, con una matita, delle linee sinuose,  ma è troppo presto per capire, aspettiamo.

Dietro a quelle linee comincia a colorare con il blu prima e poi con l’ azzurro; potrebbe essere il mare che si perde nel cielo, certo nel cielo,  perché in un angolo c’è una piccola sfera gialla che sorride. E le linee morbide che cosa potrebbero essere? Colline. Sì,  sono colline, ora colorate di verde, di un verde brillante,  punteggiato di rosso, di giallo, di rosa, che avanza.

 Pausa.

 La mano riprende la matita e traccia due  linee verticali parallele unite alla sommità da ghirigori come festoni che si allargano e si congiungono, il colore marrone riempie la base ed un verde più cupo la chioma. Ma allora è un albero! Ed un altro, ed un altro ancora! Tanti alberi sulle colline verdi che si trovano davanti al mare blu che precede il cielo azzurro. Ora la piccina, assorta , disegna, proprio davanti ai nostri occhi, una lunga striscia grigia che sale e scende, scende e sale fino a perdersi tra quelle colline e sulla striscia una scatola chiara, diciamo di un bianco latte,  con due  ruote perché noi la vediamo di profilo, ma siamo certi che le ruote siano quattro e a questo punto siamo certi che quella scatola chiara sulle ruote sia un’automobile, un vecchio modello che andava in voga negli anni 60. Mi pare di ricordare la marca e la cilindrata : Simca 1000.

Pausa.

Qualcosa di magico accade, perchè nel mondo dei bambini tutto è più semplice, anche la magia.

Accade che l’azzurro non sia più solo un colore su un foglio bianco, ma il cielo luminoso  della nostra terra, ed il blu sia davvero il mare che avanza ed indietreggia sulla riva. Le colline morbide della Murgia, con i vigneti e gli uliveti e gli alberi di pesco e gli alberi di mandorlo , prendono sostanza  cosi come  la campagna delimitata da  ordinati muretti a secco. Accade che la strada si materializzi davanti ai nostri occhi  e sulla strada quella piccola auto con a bordo un papà, una mamma, un fratellino e una sorellina. Il disegno  diventa realtà e quindi lasciamoci incantare da questo  paesaggio e guardiamolo attraverso gli occhi della bambina. Il finestrino posteriore è uno schermo.L’auto è  partita da Brindisi, dove il papà lavora, diretta a Martina Franca, dalla nonna. Le case della città non catturano l’interesse della nostra piccola amica, il paesaggio urbano lo conosce molto bene, ma quando comincia a vedere nel finestrino la campagna un senso di gioia e libertà l’avvolge, ha voglia di cantare e canta perché in quella piccola auto non c’è la radio, un optional costoso all’epoca. Canta, gioca con il fratellino e guarda fuori. Quante volte ha percorso quella strada, la magia delle varie stagioni si è fusa e confusa nella sua anima per cui vede immensi campi di papaveri  e alberi fioriti di rosa e di bianco, vede i grappoli nelle vigne e le reti sotto gli ulivi, vede foglie rosse e gialle che svolazzano nell’aria sospinte dal vento e vede anche la neve sui muretti. Tutto insieme in un’unica  meravigliosa stagione: stormi di uccelli che partono e stormi di uccelli che ritornano mentre la piccola auto prosegue nel suo viaggio: San Vito dei Normanni, sempre dritto sino alla chiesa poi è d’obbligo girare a sinistra , si passa davanti ad un parco e poi ad un cinema, si prosegue e infine si gira a destra, sulla piazza si vede un altro cinema Il Melacca ,tutto rivestito di piastrelle, e si riprende la campagna. A metà strada si lascia San Michele Salentino a  sinistra e si continua fino a Ceglie. Da lontano si vede la prima collina con sulla cima  un paese bianco, come le pietre usate per le chiese e gli antichi palazzi,  come le case dipinte con la calce.  Sembrano tanti riccioli di panna su uno zuccotto. Piccola sosta nel borgo antico dove  è d’obbligo comprare  i biscotti di pasta di mandorle ripieni di marmellata di ciliegie. E mentre i bambini addentano un biscotto  l’ auto di latta  riparte.  Ha appena lasciato il paese ed una frenata imprevista  la blocca per far passare  una famigliola di ricci  che, in fila indiana, attraversa la strada.  Il fratellino domanda « Anche loro vanno a trovare la nonna?»  e tutti ridono, anche il papà che solitamente non lo fa.  Si prosegue  per Martina Franca, curva a destra, curva a sinistra, dosso. Sui sedili posteriori i due bambini accentuano il movimento tutto a destra o tutto a sinistra e quando c’è un dosso saltano. Gli occhi arricciati, le bocche spalancate , il loro riso un trillo come quello delle campanelle.

Pausa.

Come si può  spiegare  la bellezza di quelle giornate trascorse in una scatola di latta  che scivolava su un nastro di asfalto tra gli alberi di ulivo, le campagne, il mare e il cielo, le colline bianche e la famigliola di ricci !? 

 

Unforgettable

Aveva apparecchiato con cura: la tovaglia in organza, i piatti bone china, i calici di cristallo per il vino rosso, le posate di famiglia e il portacandele in argento. Mentre posava  il centrotavola con le orchidee bianche  si era compiaciuta con se stessa. Tutto era perfetto. Come sempre.

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Per quella serata che  sarebbe stata  indimenticabile aveva iniziato a cucinare sin dal mattino. In fondo, anche un addio merita la perfezione.

Il giorno dopo, Paolo avrebbe portato via il suo corpo e il suo cuore in un’altra casa, dove un’altra donna, molto più giovane di lei, lo stava già aspettando. «Non facciamo scenate», le aveva detto. «Non è da noi», aveva risposto, «solo, vorrei ancora una cena, tutta nostra, a lume di candela».  Si era mostrata così comprensiva, non aveva potuto dirle di no.

Fasciata nel suo tubino nero, quello che le lasciava gli omeri scoperti, aveva sentito lo sguardo di lui accarezzarle i fianchi. Sapeva di essere ancora desiderabile.

La luce delle candele e la musica di Nat King Kole rendevano l’atmosfera magica. Era andata in cucina a prendere l’antipasto e lui aveva aperto il Barbaresco Crichët Pajé DOCG e l’ aveva  versato nei calici.

  Il  flan ai funghi di bosco, Paolo lo aveva assaporato con gesti lenti ed estatici, davanti al risotto al tartufo bianco, aveva chiuso gli occhi ed aspirato il profumo  in un raccoglimento mistico,  ma il culmine lo aveva raggiunto  quando aveva affondato la lama del coltello nel morbido filetto ai funghi porcini: «Sei una cuoca eccellente». «Solo?» aveva risposto lei. «Sei una cuoca perfetta… ma tu non hai toccato cibo!» «I funghi li ho cucinati apposta per te, sai che io non li amo», aveva sospirato, « e poi non ho appetito, scusami», aveva aggiunto senza riuscire a nascondere la sua infelicità.  Le era andato incontro e l’aveva accolta nelle sue braccia « Ti sto facendo del male e non volevo, mi sento in colpa per questo, spero tu riesca a perdonarmi un giorno». Erano rimasti abbracciati per qualche minuto, poi  il corpo di lui si era contratto in uno spasmo: «Mi sento strano»,  aveva detto, «forse ho bevuto troppo», e si era steso sul divano.

 Le note di Unforgettable avevano iniziato a riempire la stanza.

Lui  aveva serrato le palpebre e la bocca in una smorfia di dolore, aveva portato le mani sull’addome come a voler evitare che esplodesse, infine aveva sbarrato gli occhi e l’aveva guardata,  per l’ultima volta, sorridente e perfetta nel suo tubino nero, quello che le lasciava gli omeri scoperti.

 

 

Il tempo di una sigaretta

 

Rannicchiata nella bergere di pelle bordeaux, si portò alle labbra una sigaretta. Prese l’accendino laccato blu cobalto dalla borsa di cuoio posata sul tavolo a lato della poltrona e, con il pollice della mano sinistra,  schiacciò il pulsante. Una piccola scintilla  innescò la  fiamma che  lambì il tabacco.

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Edward Hopper – At the window

Le sue gote scarne succhiarono il fumo aromatico, le labbra avvolsero il  filtro con un movimento lento poi  si  aprirono per liberare volute grigie  che  si dispersero nell’aria. Aveva una bocca ben disegnata, non troppo sottile, né troppo carnosa, non troppo piccola, né troppo grande, semplicemente perfetta, con gli angoli rivolti in su, come in un incancellabile sorriso e  naturalmente colorata di un rosa intenso. Alla seconda boccata, chiuse  gli occhi e restò, con la testa leggermente ripiegata indietro, a soffiare il fumo verso l’alto. Il suo profilo , illuminato dalla luce che proveniva dalla finestra, si stagliava nella penombra della stanza: Il collo lungo, la curva ben definita del mento che si congiungeva con una piccola rientranza al bordo sinuoso delle labbra, l’arco di cupido ed infine il tratto deciso del naso che faceva da contrappunto alla morbidezza del volto. Una lunga frangia di capelli neri le copriva la fronte.

Sulle gambe fasciate da un jeans blu elasticizzato, giaceva la lettera che aveva appena finito di leggere. Era  scritta con un inchiostro nero e sottile su una carta bianca  fatta a mano. La busta che l’aveva contenuta era caduta sul pavimento di teak di un caldo colore bruno. Dischiuse le palpebre  ed una lacrima le sfuggì dalle ciglia. La cancellò con l’indice  e continuò a fumare , restando immobile a guardare  la stanza. I suoi grandi occhi neri  fissarono il muro  di un tenue color tortora, la tenda di lino grezzo, i vasi di gerani oltre la finestra, il cielo che si spegneva.

Allungò il braccio e la cenere cadde nel  piattino di porcellana bianca posato sul davanzale, mentre i lampioni in strada si illuminavano. L’ultima boccata fu la più lunga, aspirò profondamente, la fiamma bruciò velocemente il tabacco residuo, trattenne il fumo  per alcuni secondi e poi lo spinse fuori dalle narici, con forza.

Si alzò, spense il mozzicone,  la lettera cadde per terra, prese la borsa, cercò le chiavi dell’auto, infilò il giubbotto di pelle blu  sulla t-shirt  bianca  di cotone , si diresse verso la porta  e uscì.

 

Temporale

Ci siamo svegliati con la pioggia che batteva sui muri e sul tetto, sulla terrazza e sulle finestre.

Batteva sulle piante scosse dal vento e sulle zanzariere lasciate lì a proteggerci da una estate ancora in agguato. E,  sulle zanzariere, gocce d’acqua come svarovski ricamavano  trine su un velo da sposa.cosa-fare-quando-ti-annoi-a-casa-e-piove

Lo scroscio violento si frantumava in minuscole stille che riempivano la rete di luce umida, ondeggiavano, danzavano quasi, ma poi scivolavano, si perdevano, scomparivano mentre altre sopraggiungevano a  creare un arabesco, si impigliavano nelle maglie, si incastravano, brillavano incerte e ancora si arrendevano al loro destino.

Nel cielo d’amianto  una nube di pece si faceva avanti minacciosa, il vento con una impennata rabbiosa faceva rotolare il vaso del basilico, il campanile ed i tetti parevano rivestiti di cristallo mentre lance scagliate dal cielo disegnavano traiettorie d’acciaio. Vibravano i vetri sottili che ci separavano dalla tempesta  e noi  guardavamo stupiti  tutta quella violenza  cogliendone  solo la  bellezza.

Poi lui mi ha cercata per fare l’amore. Sarà stato il temporale  o  la  domenica pigra. Ha accarezzato la mia pelle sotto il pigiama, me lo ha sfilato e siamo rimasti nudi nella stanza, calda del nostro respiro. Il suo corpo si è impossessato del mio, ha stretto i miei fianchi tra le sue mani, ha morso i miei seni, ha soffiato un vento tropicale sulla mia bocca, ed io assistevo stupita a quella potenza cogliendone solo la dolcezza.

«Ti amo» mi ha sussurrato  prima di addormentarsi mentre il temporale , fuori, continuava a ricamare il nostro tempo.

giorno per giorno

 22 ottobre 2016 – Un’altra avventura

Scrivere , scrivere, scrivere.372f7b6c67_6177040_med-300x296-2

E’ quello che ancora faccio anche se sul blog non pubblico da circa un mese. Non ho il blocco dello scrittore, anzi. Sto scrivendo il mio primo romanzo  ed inoltre sto seguendo un corso impegnativo ed affascinante presso la Scuola Holden di Torino, perché non si finisce mai di imparare.

Per presso non intendo  dire che mi sono trasferita da Brindisi a Torino , ma che sto seguendo un corso on-line tenuto da Marco Mancassola . E’ una esperienza fantastica. Aspettatemi, tornerò presto.

Un altro sguardo

Ci siamo date appuntamento ai  “giardinetti “, ancora lo chiamo così quello spiazzo alla fine del corso che si affaccia sul porto. Quand’ero piccola  mi sembrava enorme e nei miei ricordi corrisponde ad una grande piazza con palme dai fusti alti e sottili, con le panchine in ferro smaltato, un’antica fontana con vasca in pietra leggermente decentrata, una fontanella di acqua potabile e una specie di copertura inclinata, lato capitaneria, di non so che cosa  che noi usavamo come scivolo. Le sere d’estate  andavamo lì, mia madre si sedeva ad una panchina e magari cominciava a chiacchierare con una occasionale amica mentre a noi, liberi di giocare,  raccomandava di non allontanarci. Ricordo girotondi, corse, nascondini, salti. Ricordo risate, urla, mani che si prendevano, ginocchia che si sbucciavano. Ricordo quel tipo di  felicità che appartiene solo all’infanzia.

Mentre aspetto la mia amica, lì al centro del giardino, la mia mente rileva quello che è cambiato: tutto, a parte qualche palma e le due fontane. Qui i bambini non possono più giocare, il lastricato è stato sostituito dal prato, sono stati piantati ulivi e creati vialetti di attraversamento, un chiosco di non so che cosa che man mano si appropria di spazio per tavolini all’aperto, le panchine sono in pietra. Una parte della piazza è occupata da una scultura moderna.

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Nell’agosto del 73 a causa dell’epidemia di colera era stata allestita un’infermeria proprio negli uffici che ora sono dei piloti del porto. Tutta la città  in fila per il vaccino si snodava in  una lunga serpentina che partiva appunto dall’infermeria ed arrivava sino alle aiuole dei “ giardinetti” .  Si avvertiva una sensazione generale di incombente pericolo ed era difficile credere, per noi amanti dei frutti di mare e del pesce crudo, che la colpa fosse delle nostre amate cozze.

Finalmente la vedo arrivare, ormai manca da parecchi anni, ci guardiamo  per riappropriarci della nostra amicizia, ci abbracciamo e poi  ci avviamo per il lungomare, lo stesso  che ricordiamo solcato da binari, gremito  di auto  provenienti per lo più dalla Germania e dirette per lo più in Turchia,  un turismo povero che probabilmente invece di darci qualcosa ce la toglieva. Ora sembra  la marina di qualche rinomata località turistica,  i ristorantini e i bar  si spingono, con i tavolini  e gli ombrelloni, verso la banchina. Grandi  yacht e barche a vela ormeggiati.

Il tempo è passato ma è anche cambiato! Quando eravamo ragazze sul lungomare si poteva passeggiare da maggio ad ottobre, l’inverno batteva la costa con la  tramontana e il maestrale. Ora prevale lo scirocco anche d’inverno…

“Fermiamoci qui per il nostro caffè e godiamoci la vista del porto!”