L’altra metà del calcio

imagesQuando l’ho conosciuto avrei dovuto capirlo.

«Ciao, io sono Aldo, ma tutti mi chiamano Toluca».

«Ciao, io sono Ines, ma Toluca non è una città del Messico?»

«Brava, e tutti mi chiamano Toluca perché  3 anni fa a Toluca si sono tenuti i mondiali di calcio  e anche se non abbiamo vinto la coppa del mondo siamo arrivati secondi. Ma ti rendi conto? Contro il Brasile a 2.800 metri di altezza. No, dico, ti rendi conto?»

«Certo», risposi, anche se in realtà io di calcio non ne capivo niente, ma di ragazzi sì e lui era proprio il mio tipo. Pelle olivastra, capelli neri , lunghi.  In effetti aveva un che di sudamericano.

«Sono un attaccante e tutti mi vogliono in squadra perché sono bravo, anzi sono il migliore».

Sì, avrei dovuto capirlo, ma io appartengo a quella categoria di donne romantiche disposte a tutto per amore.

Cominciai a frequentare i campetti di calcio, ad andare allo stadio la domenica, ad uscire in gruppo con i suoi amici che, a sentirli parlare,  sembravano Herrera,  Valcareggi  e  Maldini messi insieme. Avevamo anche un appuntamento fisso con la Domenica Sportiva e le partite di Serie A, la Coppa Italia e la Coppa dei Campioni, la Coppa Uefa, gli Europei ed i Mondiali e sicuramente ne dimentico qualcuno. D’estate si giocava  a Malcarne  e quando in qualsiasi stagione non si poteva scendere in campo si giocava a Subbuteo. Qualche volta è capitato anche a me di esaltarmi per la vittoria della Nazionale, in genere accadeva durante i mondiali quando  ci si riuniva in casa di qualcuno che aveva la televisione a colori e, anche se di calcio continuavo a non capirne  niente, mi piaceva quel modo di sentirsi  parte di un popolo. E poi ero giovane ed era bello entusiasmarsi.

Col passare degli anni il calcio ha inondato tutta la mia vita: magliette e tute sporche di fango da lavare, ferite da curare, serate a teatro a cui rinunciare perché c’era la partitella con gli amici e non so come è accaduto, ma ci siamo allontanati. Siamo diventati  due mondi a parte, lui davanti alla TV  a guardare la partita del momento, io in camera a leggere un libro. Allo stadio non ci sono andata più e quando lui aveva il calcetto io  uscivo con le amiche. Aveva smesso di spiegarmi le regole del gioco e le partite importanti le andava a vedere al Pub. E alla fine ognuno è andato per la sua strada.

 Mi sono sempre domandata cosa rappresenta il calcio per tanti  uomini, qualcuno ha cercato di spiegarmelo, qualcun altro ci ha scritto un libro. E va bene, va bene tutto, il sogno, l’agonismo, l’ambizione, la memoria dell’infanzia e della gioventù, lo spirito di gruppo e tante altre cose ancora, diverse per ognuno.

«Ma l’amore no!» ho detto rabbiosa « di quell’amore sono gelosa, di quella luce che brilla negli occhi  dopo una partita vinta, di quell’urlo orgasmico che segue un goal, di quell’ansia prima di un incontro, di quella sofferenza dopo una sconfitta! Quante volte mi sono sentita messa da parte per una partita di calcio».

«Io non amo il calcio» mi ha risposto Mauro, mentre chiamava  il cameriere per ordinare il dolce.

«Non dirmi che non nutri una passione per qualcosa» gli ho domandato.

20130624_105508-e1467875402442

«Mi  piace viaggiare, leggere, andare a teatro, guidare la moto, mi piace l’arte e la musica, il moto GP, andare al cinema. Mi piace nuotare e adoro il buon vino e la buona cucina e mi piacciono le donne belle e intelligenti come te».

 Avrei dovuto capirlo che se non era il calcio era la moto, ma lui mi stava accarezzando la mano  e mi guardava con adorazione e…

Accidenti!

 

 

Una terra bellissima

unnamed

Un pomeriggio di sole, vicino ad una finestra, una bambina prende un foglio bianco ed inizia a disegnare. La sua piccola mano, nella parte alta del foglio, traccia, con una matita, delle linee sinuose,  ma è troppo presto per capire, aspettiamo.

Dietro a quelle linee comincia a colorare con il blu prima e poi con l’ azzurro; potrebbe essere il mare che si perde nel cielo, certo nel cielo,  perché in un angolo c’è una piccola sfera gialla che sorride. E le linee morbide che cosa potrebbero essere? Colline. Sì,  sono colline, ora colorate di verde, di un verde brillante,  punteggiato di rosso, di giallo, di rosa, che avanza.

 Pausa.

 La mano riprende la matita e traccia due  linee verticali parallele unite alla sommità da ghirigori come festoni che si allargano e si congiungono, il colore marrone riempie la base ed un verde più cupo la chioma. Ma allora è un albero! Ed un altro, ed un altro ancora! Tanti alberi sulle colline verdi che si trovano davanti al mare blu che precede il cielo azzurro. Ora la piccina, assorta , disegna, proprio davanti ai nostri occhi, una lunga striscia grigia che sale e scende, scende e sale fino a perdersi tra quelle colline e sulla striscia una scatola chiara, diciamo di un bianco latte,  con due  ruote perché noi la vediamo di profilo, ma siamo certi che le ruote siano quattro e a questo punto siamo certi che quella scatola chiara sulle ruote sia un’automobile, un vecchio modello che andava in voga negli anni 60. Mi pare di ricordare la marca e la cilindrata : Simca 1000.

Pausa.

Qualcosa di magico accade, perchè nel mondo dei bambini tutto è più semplice, anche la magia.

Accade che l’azzurro non sia più solo un colore su un foglio bianco, ma il cielo luminoso  della nostra terra, ed il blu sia davvero il mare che avanza ed indietreggia sulla riva. Le colline morbide della Murgia, con i vigneti e gli uliveti e gli alberi di pesco e gli alberi di mandorlo , prendono sostanza  cosi come  la campagna delimitata da  ordinati muretti a secco. Accade che la strada si materializzi davanti ai nostri occhi  e sulla strada quella piccola auto con a bordo un papà, una mamma, un fratellino e una sorellina. Il disegno  diventa realtà e quindi lasciamoci incantare da questo  paesaggio e guardiamolo attraverso gli occhi della bambina. Il finestrino posteriore è uno schermo.L’auto è  partita da Brindisi, dove il papà lavora, diretta a Martina Franca, dalla nonna. Le case della città non catturano l’interesse della nostra piccola amica, il paesaggio urbano lo conosce molto bene, ma quando comincia a vedere nel finestrino la campagna un senso di gioia e libertà l’avvolge, ha voglia di cantare e canta perché in quella piccola auto non c’è la radio, un optional costoso all’epoca. Canta, gioca con il fratellino e guarda fuori. Quante volte ha percorso quella strada, la magia delle varie stagioni si è fusa e confusa nella sua anima per cui vede immensi campi di papaveri  e alberi fioriti di rosa e di bianco, vede i grappoli nelle vigne e le reti sotto gli ulivi, vede foglie rosse e gialle che svolazzano nell’aria sospinte dal vento e vede anche la neve sui muretti. Tutto insieme in un’unica  meravigliosa stagione: stormi di uccelli che partono e stormi di uccelli che ritornano mentre la piccola auto prosegue nel suo viaggio: San Vito dei Normanni, sempre dritto sino alla chiesa poi è d’obbligo girare a sinistra , si passa davanti ad un parco e poi ad un cinema, si prosegue e infine si gira a destra, sulla piazza si vede un altro cinema Il Melacca ,tutto rivestito di piastrelle, e si riprende la campagna. A metà strada si lascia San Michele Salentino a  sinistra e si continua fino a Ceglie. Da lontano si vede la prima collina con sulla cima  un paese bianco, come le pietre usate per le chiese e gli antichi palazzi,  come le case dipinte con la calce.  Sembrano tanti riccioli di panna su uno zuccotto. Piccola sosta nel borgo antico dove  è d’obbligo comprare  i biscotti di pasta di mandorle ripieni di marmellata di ciliegie. E mentre i bambini addentano un biscotto  l’ auto di latta  riparte.  Ha appena lasciato il paese ed una frenata imprevista  la blocca per far passare  una famigliola di ricci  che, in fila indiana, attraversa la strada.  Il fratellino domanda « Anche loro vanno a trovare la nonna?»  e tutti ridono, anche il papà che solitamente non lo fa.  Si prosegue  per Martina Franca, curva a destra, curva a sinistra, dosso. Sui sedili posteriori i due bambini accentuano il movimento tutto a destra o tutto a sinistra e quando c’è un dosso saltano. Gli occhi arricciati, le bocche spalancate , il loro riso un trillo come quello delle campanelle.

Pausa.

Come si può  spiegare  la bellezza di quelle giornate trascorse in una scatola di latta  che scivolava su un nastro di asfalto tra gli alberi di ulivo, le campagne, il mare e il cielo, le colline bianche e la famigliola di ricci !? 

 

Unforgettable

Aveva apparecchiato con cura: la tovaglia in organza, i piatti bone china, i calici di cristallo per il vino rosso, le posate di famiglia e il portacandele in argento. Mentre posava  il centrotavola con le orchidee bianche  si era compiaciuta con se stessa. Tutto era perfetto. Come sempre.

restaurant interior

Per quella serata che  sarebbe stata  indimenticabile aveva iniziato a cucinare sin dal mattino. In fondo, anche un addio merita la perfezione.

Il giorno dopo, Paolo avrebbe portato via il suo corpo e il suo cuore in un’altra casa, dove un’altra donna, molto più giovane di lei, lo stava già aspettando. «Non facciamo scenate», le aveva detto. «Non è da noi», aveva risposto, «solo, vorrei ancora una cena, tutta nostra, a lume di candela».  Si era mostrata così comprensiva, non aveva potuto dirle di no.

Fasciata nel suo tubino nero, quello che le lasciava gli omeri scoperti, aveva sentito lo sguardo di lui accarezzarle i fianchi. Sapeva di essere ancora desiderabile.

La luce delle candele e la musica di Nat King Kole rendevano l’atmosfera magica. Era andata in cucina a prendere l’antipasto e lui aveva aperto il Barbaresco Crichët Pajé DOCG e l’ aveva  versato nei calici.

  Il  flan ai funghi di bosco, Paolo lo aveva assaporato con gesti lenti ed estatici, davanti al risotto al tartufo bianco, aveva chiuso gli occhi ed aspirato il profumo  in un raccoglimento mistico,  ma il culmine lo aveva raggiunto  quando aveva affondato la lama del coltello nel morbido filetto ai funghi porcini: «Sei una cuoca eccellente». «Solo?» aveva risposto lei. «Sei una cuoca perfetta… ma tu non hai toccato cibo!» «I funghi li ho cucinati apposta per te, sai che io non li amo», aveva sospirato, « e poi non ho appetito, scusami», aveva aggiunto senza riuscire a nascondere la sua infelicità.  Le era andato incontro e l’aveva accolta nelle sue braccia « Ti sto facendo del male e non volevo, mi sento in colpa per questo, spero tu riesca a perdonarmi un giorno». Erano rimasti abbracciati per qualche minuto, poi  il corpo di lui si era contratto in uno spasmo: «Mi sento strano»,  aveva detto, «forse ho bevuto troppo», e si era steso sul divano.

 Le note di Unforgettable avevano iniziato a riempire la stanza.

Lui  aveva serrato le palpebre e la bocca in una smorfia di dolore, aveva portato le mani sull’addome come a voler evitare che esplodesse, infine aveva sbarrato gli occhi e l’aveva guardata,  per l’ultima volta, sorridente e perfetta nel suo tubino nero, quello che le lasciava gli omeri scoperti.

 

 

Temporale

Ci siamo svegliati con la pioggia che batteva sui muri e sul tetto, sulla terrazza e sulle finestre.

Batteva sulle piante scosse dal vento e sulle zanzariere lasciate lì a proteggerci da una estate ancora in agguato. E,  sulle zanzariere, gocce d’acqua come svarovski ricamavano  trine su un velo da sposa.cosa-fare-quando-ti-annoi-a-casa-e-piove

Lo scroscio violento si frantumava in minuscole stille che riempivano la rete di luce umida, ondeggiavano, danzavano quasi, ma poi scivolavano, si perdevano, scomparivano mentre altre sopraggiungevano a  creare un arabesco, si impigliavano nelle maglie, si incastravano, brillavano incerte e ancora si arrendevano al loro destino.

Nel cielo d’amianto  una nube di pece si faceva avanti minacciosa, il vento con una impennata rabbiosa faceva rotolare il vaso del basilico, il campanile ed i tetti parevano rivestiti di cristallo mentre lance scagliate dal cielo disegnavano traiettorie d’acciaio. Vibravano i vetri sottili che ci separavano dalla tempesta  e noi  guardavamo stupiti  tutta quella violenza  cogliendone  solo la  bellezza.

Poi lui mi ha cercata per fare l’amore. Sarà stato il temporale  o  la  domenica pigra. Ha accarezzato la mia pelle sotto il pigiama, me lo ha sfilato e siamo rimasti nudi nella stanza, calda del nostro respiro. Il suo corpo si è impossessato del mio, ha stretto i miei fianchi tra le sue mani, ha morso i miei seni, ha soffiato un vento tropicale sulla mia bocca, ed io assistevo stupita a quella potenza cogliendone solo la dolcezza.

«Ti amo» mi ha sussurrato  prima di addormentarsi mentre il temporale , fuori, continuava a ricamare il nostro tempo.

Un altro sguardo

Ci siamo date appuntamento ai  “giardinetti “, ancora lo chiamo così quello spiazzo alla fine del corso che si affaccia sul porto. Quand’ero piccola  mi sembrava enorme e nei miei ricordi corrisponde ad una grande piazza con palme dai fusti alti e sottili, con le panchine in ferro smaltato, un’antica fontana con vasca in pietra leggermente decentrata, una fontanella di acqua potabile e una specie di copertura inclinata, lato capitaneria, di non so che cosa  che noi usavamo come scivolo. Le sere d’estate  andavamo lì, mia madre si sedeva ad una panchina e magari cominciava a chiacchierare con una occasionale amica mentre a noi, liberi di giocare,  raccomandava di non allontanarci. Ricordo girotondi, corse, nascondini, salti. Ricordo risate, urla, mani che si prendevano, ginocchia che si sbucciavano. Ricordo quel tipo di  felicità che appartiene solo all’infanzia.

Mentre aspetto la mia amica, lì al centro del giardino, la mia mente rileva quello che è cambiato: tutto, a parte qualche palma e le due fontane. Qui i bambini non possono più giocare, il lastricato è stato sostituito dal prato, sono stati piantati ulivi e creati vialetti di attraversamento, un chiosco di non so che cosa che man mano si appropria di spazio per tavolini all’aperto, le panchine sono in pietra. Una parte della piazza è occupata da una scultura moderna.

43213735

Nell’agosto del 73 a causa dell’epidemia di colera era stata allestita un’infermeria proprio negli uffici che ora sono dei piloti del porto. Tutta la città  in fila per il vaccino si snodava in  una lunga serpentina che partiva appunto dall’infermeria ed arrivava sino alle aiuole dei “ giardinetti” .  Si avvertiva una sensazione generale di incombente pericolo ed era difficile credere, per noi amanti dei frutti di mare e del pesce crudo, che la colpa fosse delle nostre amate cozze.

Finalmente la vedo arrivare, ormai manca da parecchi anni, ci guardiamo  per riappropriarci della nostra amicizia, ci abbracciamo e poi  ci avviamo per il lungomare, lo stesso  che ricordiamo solcato da binari, gremito  di auto  provenienti per lo più dalla Germania e dirette per lo più in Turchia,  un turismo povero che probabilmente invece di darci qualcosa ce la toglieva. Ora sembra  la marina di qualche rinomata località turistica,  i ristorantini e i bar  si spingono, con i tavolini  e gli ombrelloni, verso la banchina. Grandi  yacht e barche a vela ormeggiati.

Il tempo è passato ma è anche cambiato! Quando eravamo ragazze sul lungomare si poteva passeggiare da maggio ad ottobre, l’inverno batteva la costa con la  tramontana e il maestrale. Ora prevale lo scirocco anche d’inverno…

“Fermiamoci qui per il nostro caffè e godiamoci la vista del porto!”

Storia di un amore

Sharon mi guardava con i suoi occhi dolci come nocciole, nocciole offuscate dal dolore silenzioso ma sempre pronte a regalarmi uno sguardo d’amore. Come ogni mattina mi aspettava , no, non più come una volta quando la sua felicità oltrepassava i confini del suo corpo minuto per diffondersi in tutta la casa ed era un piacere vederla e dimenticare, anche solo per un attimo, tutti i problemi  che avevo. La sua gioia  era contagiosa. Facevamo una passeggiata insieme prima di iniziare la nostra giornata, io in giro per lavoro, lei in casa ad aspettarmi, a venirmi incontro allegra al mio rientro, insieme sul divano a guardare la televisione e lei a cercare una mia carezza. Amica di tanti momenti di solitudine.

Amavo camminare, mi aiutava a liberarmi dal peso opprimente che mi schiacciava l’aria nel petto; certi pomeriggi andavamo insieme per sentieri lunghi attraverso tutta la città e lei silenziosa rispettava il mio stato d’animo, non poteva far altro che starmi vicina discreta e delicata. La mia Sharon, ormai invecchiata. Gli anni le avevano tolto  gli assalti affettuosi che mi riservava, le folli corse di felicità, quel girarmi intorno festosa. Quanti dolori aveva vissuto insieme a me,  tenera compagna delle mie notti insonni , lei con il sonno così leggero testimone dei miei fallimenti, delle mie sconfitte ma anche dei miei momenti di gloria.

C’era stato un tempo che avevo pensato di lasciarla andare, magari avrebbe potuto vivere in una famiglia felice invece che con un uomo ormai solo e arrabbiato ma lei aveva voluto restarmi accanto per sempre, per il suo sempre. Anche quella mattina mi  aspettava, lì nell’angolo della casa dove si sentiva al sicuro, aveva alzato la testa dal suo giaciglio ed aveva mosso debolmente la coda. Come ogni mattina, l’avevo presa in braccio e l’avevo portata sul balcone a prendere un po’ di sole, poi mentre stavo per uscire , andavo a comprarle i bocconcini  che le piacevano tanto, mi aveva richiamato con un guaito debole ed ero tornato indietro, l’avevo accarezzata e lei mi aveva leccato la mano in un ultimo bacio, in un ultimo respiro.

Le mie lacrime, come perle liquide sul suo pelo bianco, rilucevano sotto i raggi del sole .

West_Highland_White_Terrier_5381953

Strega

 

«Voglio fare un altro brindisi…»

RagazzaCheUrla

Tutti alzarono i bicchieri aspettando le sue parole,

« Ad Enrico che ha dovuto attraversare la Manica per trovare la donna della sua vita, e ad  Hannah  che se lo è accalappiato … Felicità.»

«Basta Adele” disse Andrea ,” per stasera hai bevuto troppo.»

« E tu lasciami perdere, non sei mica mio padre.»

I suoi occhi da gatta rabbiosa si erano incrociati con quelli  di Francesca: « Che ci troverà in quella spilungona insignificante», le disse sottovoce.

« Adele, a volte sei  proprio cattiva.  Hannah è bellissima.»

«Hannah è bellissima, Hannah  è bellissima. Hannah  e un’inglese bionda e slavata, ad  Enrico  è sempre piaciuta la donna mora.»

«La donna  mora,  saresti tu?»

Si era chiusa nel silenzio, tradita anche dalla sua migliore amica, il mondo le era ostile  e lei sentiva di odiarlo, ma doveva  continuare ad alzare il bicchiere ad ogni brindisi di quell’assurda cena offerta da  Enrico agli amici italiani  per festeggiare il matrimonio celebrato un mese prima a Londra.

Adele  si era imposta di tirare le labbra verso le orecchie in una specie di sorriso, ma la palpebra dell’occhio destro vibrava e lei non poteva far nulla per fermarla , intanto, come un disco rotto, tra un sorso di vino e l’altro, continuava  a ripetere «Felicità.»

Andò nel bagno  con un tovagliolo tra le mani che ripiegò a formare una specie di bambola, il tovagliolo era quello di Hannah con sopra l’impronta del suo rossetto. Cercò nella sua borsa uno spillo, ma non l’aveva,  allora si limitò a stringere il tovagliolo nel punto che idealmente doveva essere il collo. Nella sala Hannah cominciò a tossire.

Ritornò al tavolo , Hannah aveva la faccia  rossa  mentre gli amici si affrettavano a darle qualche pacca sulla spalla o ad offrirle un bicchiere d’acqua.  Ora la palpebra  non vibrava più ed il suo sorriso era tanto spontaneo   quanto  inappropriato.

 Infilò la bambola di pezza in borsa.

La mattina dopo si erano tutti  dati appuntamento alle 9 per andare insieme in spiaggia, Enrico li raggiunse solo per un caffè,  Hannah era rimasta a casa.

«Cosa le è successo?» gli chiese Adele angelica.

«Non lo so, ha  avuto tutta la notte dei dolori lancinanti in ogni parte del corpo.»

«Mi dispiace. » E gli posò una mano sulla spalla. Ritornò il colpo allo stomaco che aveva sempre provato ogni volta che lo toccava e quell’amarezza  figlia della consapevolezza che non sarebbe mai stato suo.

«Sei un’amica , Adele, pensavo che non mi avresti perdonato , ma non ero pronto allora.»

«Ti vorrò sempre bene Enrico, la vita però è andata avanti e con Andrea  sono felice, forse non eri la persona giusta per me, occupati della tua Hannah, ha bisogno di te.»

La baciò dolcemente  sulla guancia, Adele si domandò perché le toccasse tanta sofferenza.

Nei giorni successivi il sole precedeva la luna e la luna il sole, gli amici si ritrovavano in spiaggia a fare le solite cose di ogni estate, la ventata di novità e curiosità portata da Enrico  si era dissolta nell’attesa  preoccupata sulla sorte di  Hannah che  continuava a star male.  Adele,  con il suo sguardo metallico e la sua voce aspra come un chicco d’uva acerba,  ripeteva: « Mi dispiace tanto per quella povera ragazza.» E, mentre chi la conosceva faceva solo finta di credere alla sincerità delle sue parole, lei  ritornava, non vista,  alla sua  bambola di pezza.

Una mattina la cercò senza  trovarla, frugò come impazzita in tutti gli angoli della casa, poi vide il tovagliolo lavato, ripiegato e stirato insieme alla biancheria da mettere a posto.

Un urlo ruppe il silenzio, feroce,  da strega  o semplicemente da donna sconfitta.  

 

 

 

 

 

 

Un abbraccio

 

Lo conoscevo appena e non mi piaceva.

Io arrivavo da Milano e lui da Francoforte .

Abbiamo trascorso tutta la giornata seduti uno accanto all’altra ad ascoltare un tizio che in inglese ci diceva come dovevamo svolgere il nostro lavoro.

La sera alla cena di gala  l’ ho ritrovato al  mio  tavolo, abbiamo dovuto per forza scambiarci un sorriso e qualche frase di circostanza.

 Ho cominciato ad osservarlo  e mi sono resa conto che, sino a quel momento,  non lo avevo mai guardato.

 Un’occhiata distratta al mio cellulare, c’era  un messaggio di Andrea.  Sono stata tentata di non leggerlo.  Ed invece l’ho letto – Vigliacco! – come un sibilo,  è sfuggito dalle mie labbra serrate.

 Ho abbassato la testa, confusa, ed ho  cominciato a tremare e lui, il mio vicino si  è accorto che qualcosa non andava. Si è  alzato,  ha chiesto  scusa agli altri commensali e  ha detto  – Abbiamo bisogno di fumare un sigaretta-, poi mi  ha presa per il gomito e mi ha  spinta sulla grande terrazza dell’hotel.

Stavo piangendo in silenzio, mi  sono appoggiata ad un muro ed ho chiuso gli occhi, continuavo a tremare, ha acceso una sigaretta e me l’ha passata –  non fumo-  ho detto tra i singhiozzi.-  Peccato, potevi essere la mia donna ideale-.

L’ ho guardato stranita, con le ciglia gocciolanti, ha  sorriso – Non vale la pena per niente e per nessuno, non vale la pena piangere-,  ma io  ho continuato a tremare. Ed allora mi  ha circondata con il suo corpo e con le sue braccia,  ho posato la testa sulla sua spalla mentre lui mi accarezzava il viso, il collo, gli omeri. Poi ha intrecciato le sue dita nei miei capelli e li  ha annusati – Sai di buono-   ed io ho sollevato lo sguardo mentre il calore del suo corpo riscaldava il mio. Non tremavo più. Le sue iridi blu  mi scrutavano  attraverso un lungo ciuffo biondo  che gli ricadeva sulla fronte, con la mano lo  ha tirato dietro l’orecchio. Mi  sono soffermata sui suoi zigomi, sul suo naso , sulle sue labbra , non  ho guardato altro, non volevo staccarmi da quell’abbraccio , temevo di perdermi in mille frammenti . Mi sono accucciata  ed abbiamo  cominciato a respirare insieme.

tumblr_nyunbeof911twlsi7o1_1280
Gustav Klimt – Il bacio

.

Siamo rimasti così per un tempo che non abbiamo misurato e poi il nostro respiro è cambiato, le sue labbra  non toccavano le mie, ma ne avvertivo la presenza ravvicinata, sussurrava  parole che non riuscivo a comprendere , le passava dalla sua bocca alla mia come fragoline di bosco, ne sentivo quasi il sapore, e mi  ha baciata. Era  come  il tocco di una piuma che circumnavigava la mia bocca, come  una farfalla che mi solleticava le labbra pronte a dischiudersi, ho  atteso e mi sono  offerta,  ho atteso e mi sono ritratta, infine mi  sono arresa.

 

Corto Circuito

-Non è possibile, Cazzo!-

Un pugno sul tavolo e dalla mia bocca partono a raffica una serie di insulti in direzione  del giovane  medico che mi sta davanti: tutti i vaffanculo che non ho detto nella vita, tutti gli stronzo  che non mi sono neanche permessa di pensare e tutti i coglione che è una parola veramente volgare.

AIPAI_cortocircuito (2)

Dopo una sventagliata di proiettili  che si è sparsa a casaccio nello studio, mi   ripiego su me stessa abbattuta dal rinculo di un fucile che non ho mai saputo usare.

Cerco di ricordare che cosa  ha centrifugato i miei pensieri, permettendo ai capi scuri di macchiare il mio bucato bianco.

Sono una donna di classe, una che affronta la vita con eleganza, con misura, con discrezione, forse sino ad ora con placida rassegnazione, magari con un pizzico di alterigia, come se fossi superiore agli eventi.

Comprensiva, quanto e più di una madre,  con l’uomo che ripetutamente mi tradisce.

Amorevole  con quella che dovrebbe essere la  mia più cara amica  ma che mi fa terra bruciata intorno.

Docile con il mio capo che mi urla nelle orecchie tutto il suo essere potente.

Paziente con chiunque mi scarica addosso  la sua frustrazione.

Ed ora, un medico del cazzo mi dice che non ho più tempo!

-Come sarebbe a dire che non ho più tempo? Lei non è il mio medico curante, lei è soltanto un sostituto, un pivello, uno che ancora di medicina non ha capito un  emerito …-.

-Signora, si calmi, ripeteremo le analisi del sangue,- mi dice.

-Quali analisi del sangue? Io ho  fatto una semplice radiografia. E lei è un …-.

Sì, il mio cervello è pronto a crivellare di colpi  questo piccolo uomo , la sua poltroncina blu, la sua scrivania di mogano e tutto ciò che c’è in questa stanza, ma un segnale di dare la precedenza, uno stop, un semaforo rosso, una sbarra abbassata di un passaggio a livello arrivano tutti insieme a bloccare  il mio livore.

Mi fermo, come un’auto  in ebollizione. Nel fumo, che fuoriesce dal motore,  intravedo spezzoni di parole  che no, non posso proprio dire. Realizzo che il giovane dottore ha preso un abbaglio, un’altra al mio posto sarebbe morta sul colpo. Io ho solo imprecato.

Solo!

Beh! Non è stata proprio  una reazione elegante  e misurata , è  stato  un  vero e proprio corto   circuito.  La me silente, soffocata, schiacciata, incastrata in una vita  estranea è deflagrata in  schegge di rabbia. Un’esplosione così potente, così orgasmica, così catartica. Mi sento meglio adesso, tutto è cambiato in una minuscola porzione di tempo  grazie a questo medico imbranato .

Sorrido, con ancora il respiro affannoso, lo ringrazio, gli stringo la mano mentre lui mi guarda come se fossi un’aliena ed esco  decisa  ad affrontare il marito, l’amica, il capo e tutti i vampiri  che ti succhiano l’anima.

 

 

Momenti

Il primo vagito , l’ultimo rantolo e nel mezzo  momenti  di più o meno qualcosa.

 Momenti  in cui tutto accade per la prima volta, ma anche altri,  cesellati nella mente dalle abili mani della vita ,  momenti preziosi di gioia, momenti preziosi di dolore.

 Esperienze: la rabbia che urla sconfitta, la paura che costruisce gabbie, il coraggio che affronta l’incerto e l’amore che crea alchimie.

Momenti inutili, momenti banali, momenti quotidiani in cui tutto si ripete sino alla noia.

 E poi ci sono momenti  che non consideri, che ti sfiorano veloci  mentre sei  altrove, non importa dove, semplicemente altrove, con la mente, con il corpo, con il cuore , magari immerso nel niente. Si avvicinano nel silenzio di un pomeriggio assolato, nella quiete di una notte stellata, nell’attimo che precede il risveglio  e ti accarezzano la pelle, ti avvolgono  nella loro danza per poi dissolversi  inosservati se non fosse per…

m2 (2)
Michelangelo- La creazione di Adamo-particolare

In un  pomeriggio d’estate, le persiane  socchiuse cercano inutilmente di bloccare l’aria rovente che proviene dalla città muta. Solo la voce delle cicale si sente sotto il sole e il rombo di qualche moto che passa lontano.

Sdraiato sul divano il corpo senza forze, sconfitto dal caldo. Chiudi gli occhi e sogni qualcosa, poi li riapri  di botto  per lo schiamazzo  di un ragazzino amplificato dal silenzio. Nelle fasce di  luce che si insinuano  nella stanza, particelle di aria  volteggiano. Il tuo sguardo, perso tra la veglia e il sonno, le insegue.

Le  tende  ondeggiano appena , la pianta nel vaso riposa, il bicchiere sul tavolino attende, i quadri si scambiano il posto  sulle pareti, i mobili si sgranchiscono  le gambe e le ante si  schiudono come fiori. All’interno,  le  porcellane,  affacciate,  ringraziano.  Il dorato parquet  diventa  liquido, come l’acqua  di un lago baciato dal sole  ed è come se tutte le cose si svuotassero di senso. Ti ritrovi  in un posto qualsiasi dell’Universo che solo incidentalmente è la tua casa, ma tu senti che in quel momento sei ovunque, entri  nel flusso dell’energia  che ti  risucchia  ed attraversi, come su un tappeto volante, tutte le  dimensioni  che non conosci,  allineate, in un sincronismo perfetto,  solo per quell’ istante che si amplifica, immobile, intorno a te.

Il tempo si ferma e vivi, inconsapevole, l’eternità.

 Se non fosse per…

Se non fosse per un frammento di coscienza che si libera dall’abbraccio del  vuoto  non  comprenderesti che ciò che non ha principio né fine  esiste.  E’ lì, ma già  non c’è più, ti sfugge,  non riesci ad agguantarlo, è oltre ormai, l’incanto è spezzato  e ti ritrovi   dove sei sempre stato, sul tuo divano con il corpo senza forze, ma  con una sensazione placida di infinito che ti pervade ed acquieta la  paura della tua anima sgomenta davanti  al senso della vita.