Pulizie di primavera

 

Lo squillo del telefono raggiunge vago la mia coscienza barricata in un  non luogo alla ricerca del silenzio. I sensi intorpiditi, la consapevolezza ottusa, l’ora che si confonde all’allora e tutto avviene senza che io possa impedirlo.

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Wladyslaw Slewinski – donna che dorme con gatto – particolare- 1896

La donna che entra nella stanza l’ho già vista, esattamente due anni fa. Mi piace il suo sguardo luminoso  mentre con stracci e pennelli si accinge alle pulizie di primavera.  Sta intonando una canzone francese:

«  Quand il me prend dans ses bras
Il me parle tout bas
Je vois la vie en rose».

Si muove leggera, come se danzasse, ed  apre  le finestre  al  sole che, sospinto dallo sbuffo del vento, avanza. Le tende si aprono  come dame inchinate al passaggio del re, come vele si gonfiano  e svolazzano, si innalzano sino a lambire il soffitto e si avvinghiano l’una all’altra , quindi si lasciano legare in un abbraccio e ritornano tranquille al loro posto. Lei, seduta su una seggiola, ripiega uno scialle ricamato, mentre Il profumo dei fiori di limone arriva  insieme   al richiamo di una cinciallegra.

Fa spazio nell’armadio e nella scarpiera, libera due  cassetti del comò  e sul comodino poggia il libro che gli ha appena comprato. Sulla prima pagina bianca ha scritto la data e  -ti amo-.

Ed ecco che entra un’altra donna con secchio e ramazza. In lei tutto è nero: le scarpe, le calze, l’abito,  i guanti. Il volto è coperto da un lungo velo, anch’esso nero. La stanza si scolorisce al suo passaggio.  Posa il secchio, poggia la ramazza e solleva il velo. Non la riconosco.

Avanza lentamente verso la prima donna intenta a spolverare le eleganti poltroncine in pelle azzurra. Una scheggia di luce rimbalza su  qualcosa che  stringe nel suo guanto, un  bagliore mi ferisce gli occhi ma  non mi impedisce di vedere la lama  che si eleva  sull’inconsapevole vittima e la trafigge al cuore.

Poi, lascia cadere il coltello che, lungo il tragitto dalla mano al pavimento, scompare com’è scomparsa la donna trafitta.

Nella stanza  siamo rimaste solo noi due.  Se potessi fuggirei, ma  resto immobilizzata nel mio torpore e lei neppure si accorge di me.

Si china, prede  gli stracci e continua a pulire esattamente là dove l’altra si è fermata. Chiude le finestre e le ombre, in delirio come streghe giunte ad un sabba,  avvolgono  tutto nuovamente.

 L’armadio si apre  mostrando solo abiti da donna. Neri. 

Una morsa mi afferra il cuore che cerca di fuggire rimbalzando da una parte all’altra della cassa toracica. Sto perdendo il controllo o forse non l’ ho mai avuto. Cerco di calmarmi, ordino al mio respiro di rallentare. Finalmente si acquieta e  torno a respirare, ma staziono ancora  in una terra  di confine.

Tutto ricomincia.

La donna che canta la vie en rose, il sole, il profumo del limone, la cinciallegra, la donna in nero, il coltello, e poi di nuovo il buio. Urlo, io so che sto urlando ma nessun suono esce dalla mia gola,  sto soffocando, è la fine. Panico, si chiama panico.

«Questo è solo un brutto sogno» mi dico, «calmati».

 Non so quanto tempo sia passato, ma il respiro, ora, mi attraversa con dolcezza, il telefono torna a squillare, richiamandomi stizzito alla realtà.

Può essere solo primavera, riconosco quest’aria morbida e leggera.

 La testa mi scoppia e gli occhi, brulicanti  di lacrime, faccio fatica a schiuderli, la bocca impastata rumina un lamento. Mio Dio, mi sto svegliando!

 Stringo tra le mani la sua ultima lettera- ADDIO- l’unica cosa che ricordo in un mare di parole finte  -ADDIO- dopo una promessa tradita-ADDIO-per un altro amore.

 Se potessi stritolare, sminuzzare, frantumare e buttare lui come butto ora questo foglio martoriato dalle mie dita, mi sentirei meglio.

Nella stanza il secchio e la ramazza  aspettano come bravi soldatini che io,  con ancora addosso la mio abito  nero, dia l’ordine di iniziare le pulizie di primavera.

 

 

                                                             

Sposa bagnata sposa fortunata

Arrivò nel suo abito bianco, immacolato nonostante la pioggia. Sembrava che il tempo le avesse concesso una tregua proprio per consentirle di entrare  in chiesa come una principessa.

Al braccio di suo padre attraversò tutta la navata mentre  le note dell’Ave Maria di Shubert si rincorrevano tra le colonne di marmo, rimbalzavano sugli altari laterali, si inerpicavano sino al soffitto affrescato per poi fermarsi davanti all’altare maggiore, bloccate dal ciborio.

Sentiva su di se gli sguardi degli invitati e a volte le sembrava di poterne carpire  i pensieri. C’erano tutti: lo zio Vittorio , il suo testimone di nozze di cui da bambina si era innamorata,  che la guardava con affetto paterno, la zia Concita sempre intenta a domandarsi perché lei non fosse riuscita a trovare un marito e la zia Maria, nel suo abito di strass, che già  pregustava il pranzo di nozze. C’erano anche  lo zio Ciccio  con addosso un abito troppo stretto,  tutti i suoi cugini  che da lì a poco l’avrebbero fatta commuovere con una sorpresa e le  amiche del cuore che la guardavano con ammirazione e  invidia insieme.  Sua madre al primo banco, con occhi umidi, le sorrideva.

Poi c’erano gli invitati della famiglia dello sposo.

Una persona mancava.  Lei  decise di non  farsi rovinare quel momento da un’assenza.

I suoi suoceri, al primo banco stavano silenziosamente litigando tra loro, riservando sorrisi di circostanza a quegli invitati che andavano a salutarli prima di prendere posto, un neonato piangeva in fondo alla chiesa, le composizioni di fiori non erano del colore che aveva scelto lei, il prete le sorrideva rassicurante mentre il fotografo immortalava il momento.

Fuori riprese a piovere, ma il tempo,  non voleva farle dispetti e quando si trattò di uscire dalla chiesa, un timido sole si affacciò tra le nuvole colorando di luce una giornata altrimenti grigia.

«Sposa bagnata, sposa fortunata!» disse qualcuno degli invitati mentre gli sposi entravano in auto, eppure lei non era stata toccata neanche da una goccia. Un brivido le attraversò la schiena, una specie di presagio a cui non volle dare peso per non corrompere l’appagamento di quella giornata.

Al ristorante gli invitati festosi , mentre trangugiavano  tartine e aperitivi, li aspettavano. «Ecco gli sposi!» gridò qualcuno e un lungo applauso accompagnò il loro ingresso.

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Marc Chagall – Gli sposi della Tour Eiffel

C’erano tutti ma lui ancora non era arrivato. « E’ stato trattenuto» sospirò la fidanzata di turno. La sposa abbozzò un sorriso, sapeva che neanche quella avrebbe resistito, e andò alla toilette a rinfrescarsi. Lo sposo la seguì, aveva voglia di baciarla, di stringerla, di toccarla, come se ancora non si capacitasse di essere lui l’eletto. Un bacio leggero, quasi rubato,  « Sbrigati» le disse, mentre lei lo spingeva con un sorriso fuori dal bagno,  «stanno per servire gli antipasti».

Sola,  quel sorriso collassò in una smorfia  e gli occhi si spensero come dei lampioni alle prime luci dell’alba. Con una salvietta inumidita si tamponò la pelle e ad ogni tocco  un’unica domanda , come un eco, si propagò nella sua testa.

Qualcuno entrò mentre lei ripassava il rossetto sulle labbra  già stanche. Lo vide chiudere a chiave la porta, ora non mancava nessuno!

« Sei bellissima» le disse, «perché lui?», 

«Perché tu mi avresti fatto soffrire» rispose.

 Le si avvicinò lentamente e quando le fu davanti cominciò a sfiorarle le mani, tremava. Le sue dita si bloccarono sull’anello nuziale, ci girarono intorno, poi proseguirono lungo le braccia come un alito leggero di vento, come una piuma persa nell’aria. Superarono gli omeri e salirono  lungo il collo, si intrecciarono nei suoi capelli, le  accarezzarono il  volto  come a  memorizzarne l’ovale, infine  scesero  lungo la scollatura sino quasi a lambirle i seni. La baciò e lei lo lasciò fare, quel bacio sapeva di fumo e di alcol.  Si liberò dal suo abbraccio e si avviò verso la porta,  liberarsi dal suo sguardo, che  come un amo le  si era conficcato nell’anima, fu più difficile.

« Questo è un addio» furono le parole che viaggiarono  tremule nel  suo respiro mentre riapriva la  porta.

« Hai scelto il fratello sbagliato», replicò stridulo lui, ma la  musica che proveniva dalla sala coprì la sua voce.

 

 

 

Quello che leggono i…

Ebbene sì, sono curiosa di capire cosa leggono gli adolescenti e quindi mi imbatto, non tanto casualmente, in un libro gentilmente prestatomi da una ragazzina di 14 anni.

Il libro è “ShadowhunterS” sottotitolo “Città di ossa” l’autrice Cassandra Clare.

Si tratta di una saga formata da circa 14 volumi editi appartenenti al genere urban fantasy.

Il libro si fa leggere, è semplice, immediato e privo di complicate elucubrazioni, d’altra parte è stato scritto per un lettore non sofisticato  ancora alle prime armi. Inoltre, contiene tutti gli elementi che possono affascinare gli adolescenti, magari più le femmine dei maschi, o meglio, i ragazzi potrebbero essere attratti da tutti i personaggi della notte – vampiri, lupi mannari,dimenticati, cacciatori, demoni e maghi- le ragazze anche, ma in più da ciò che ha sempre affascinato le ragazze di tutti i tempi: la scoperta dell’amore, il mito dell’eroe che le salva, alias principe azzurro – che nello specifico si veste di nero), ma anche la scoperta di se stesse come soggetti autonomi e forti. Insomma gli elementi per sognare  sogni moderni ci sono tutti.

C’è da dire che il libro ci pone sempre davanti a colpi di scena ed il ritmo diventa via via più incalzante, il fantastico diventa verosimile fino a convincerci di essere realtà. I personaggi macabri e le scene raccapriccianti non sono così orripilanti come potrebbero esserlo quelle di un film, ognuno leggendo indirizza la propria immaginazione come vuole e sin dove può.

Il finale non è scontato, non è proprio come nelle favole  “…e vissero felici e contenti…”,d’altra parte è rivolto  a dei prossimi adulti non a dei bambini.

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