Lo squillo del telefono raggiunge vago la mia coscienza barricata in un non luogo alla ricerca del silenzio. I sensi intorpiditi, la consapevolezza ottusa, l’ora che si confonde all’allora e tutto avviene senza che io possa impedirlo.
La donna che entra nella stanza l’ho già vista, esattamente due anni fa. Mi piace il suo sguardo luminoso mentre con stracci e pennelli si accinge alle pulizie di primavera. Sta intonando una canzone francese:
« Quand il me prend dans ses bras
Il me parle tout bas
Je vois la vie en rose».
Si muove leggera, come se danzasse, ed apre le finestre al sole che, sospinto dallo sbuffo del vento, avanza. Le tende si aprono come dame inchinate al passaggio del re, come vele si gonfiano e svolazzano, si innalzano sino a lambire il soffitto e si avvinghiano l’una all’altra , quindi si lasciano legare in un abbraccio e ritornano tranquille al loro posto. Lei, seduta su una seggiola, ripiega uno scialle ricamato, mentre Il profumo dei fiori di limone arriva insieme al richiamo di una cinciallegra.
Fa spazio nell’armadio e nella scarpiera, libera due cassetti del comò e sul comodino poggia il libro che gli ha appena comprato. Sulla prima pagina bianca ha scritto la data e -ti amo-.
Ed ecco che entra un’altra donna con secchio e ramazza. In lei tutto è nero: le scarpe, le calze, l’abito, i guanti. Il volto è coperto da un lungo velo, anch’esso nero. La stanza si scolorisce al suo passaggio. Posa il secchio, poggia la ramazza e solleva il velo. Non la riconosco.
Avanza lentamente verso la prima donna intenta a spolverare le eleganti poltroncine in pelle azzurra. Una scheggia di luce rimbalza su qualcosa che stringe nel suo guanto, un bagliore mi ferisce gli occhi ma non mi impedisce di vedere la lama che si eleva sull’inconsapevole vittima e la trafigge al cuore.
Poi, lascia cadere il coltello che, lungo il tragitto dalla mano al pavimento, scompare com’è scomparsa la donna trafitta.
Nella stanza siamo rimaste solo noi due. Se potessi fuggirei, ma resto immobilizzata nel mio torpore e lei neppure si accorge di me.
Si china, prede gli stracci e continua a pulire esattamente là dove l’altra si è fermata. Chiude le finestre e le ombre, in delirio come streghe giunte ad un sabba, avvolgono tutto nuovamente.
L’armadio si apre mostrando solo abiti da donna. Neri.
Una morsa mi afferra il cuore che cerca di fuggire rimbalzando da una parte all’altra della cassa toracica. Sto perdendo il controllo o forse non l’ ho mai avuto. Cerco di calmarmi, ordino al mio respiro di rallentare. Finalmente si acquieta e torno a respirare, ma staziono ancora in una terra di confine.
Tutto ricomincia.
La donna che canta la vie en rose, il sole, il profumo del limone, la cinciallegra, la donna in nero, il coltello, e poi di nuovo il buio. Urlo, io so che sto urlando ma nessun suono esce dalla mia gola, sto soffocando, è la fine. Panico, si chiama panico.
«Questo è solo un brutto sogno» mi dico, «calmati».
Non so quanto tempo sia passato, ma il respiro, ora, mi attraversa con dolcezza, il telefono torna a squillare, richiamandomi stizzito alla realtà.
Può essere solo primavera, riconosco quest’aria morbida e leggera.
La testa mi scoppia e gli occhi, brulicanti di lacrime, faccio fatica a schiuderli, la bocca impastata rumina un lamento. Mio Dio, mi sto svegliando!
Stringo tra le mani la sua ultima lettera- ADDIO- l’unica cosa che ricordo in un mare di parole finte -ADDIO- dopo una promessa tradita-ADDIO-per un altro amore.
Se potessi stritolare, sminuzzare, frantumare e buttare lui come butto ora questo foglio martoriato dalle mie dita, mi sentirei meglio.
Nella stanza il secchio e la ramazza aspettano come bravi soldatini che io, con ancora addosso la mio abito nero, dia l’ordine di iniziare le pulizie di primavera.