L’altra metà del calcio

imagesQuando l’ho conosciuto avrei dovuto capirlo.

«Ciao, io sono Aldo, ma tutti mi chiamano Toluca».

«Ciao, io sono Ines, ma Toluca non è una città del Messico?»

«Brava, e tutti mi chiamano Toluca perché  3 anni fa a Toluca si sono tenuti i mondiali di calcio  e anche se non abbiamo vinto la coppa del mondo siamo arrivati secondi. Ma ti rendi conto? Contro il Brasile a 2.800 metri di altezza. No, dico, ti rendi conto?»

«Certo», risposi, anche se in realtà io di calcio non ne capivo niente, ma di ragazzi sì e lui era proprio il mio tipo. Pelle olivastra, capelli neri , lunghi.  In effetti aveva un che di sudamericano.

«Sono un attaccante e tutti mi vogliono in squadra perché sono bravo, anzi sono il migliore».

Sì, avrei dovuto capirlo, ma io appartengo a quella categoria di donne romantiche disposte a tutto per amore.

Cominciai a frequentare i campetti di calcio, ad andare allo stadio la domenica, ad uscire in gruppo con i suoi amici che, a sentirli parlare,  sembravano Herrera,  Valcareggi  e  Maldini messi insieme. Avevamo anche un appuntamento fisso con la Domenica Sportiva e le partite di Serie A, la Coppa Italia e la Coppa dei Campioni, la Coppa Uefa, gli Europei ed i Mondiali e sicuramente ne dimentico qualcuno. D’estate si giocava  a Malcarne  e quando in qualsiasi stagione non si poteva scendere in campo si giocava a Subbuteo. Qualche volta è capitato anche a me di esaltarmi per la vittoria della Nazionale, in genere accadeva durante i mondiali quando  ci si riuniva in casa di qualcuno che aveva la televisione a colori e, anche se di calcio continuavo a non capirne  niente, mi piaceva quel modo di sentirsi  parte di un popolo. E poi ero giovane ed era bello entusiasmarsi.

Col passare degli anni il calcio ha inondato tutta la mia vita: magliette e tute sporche di fango da lavare, ferite da curare, serate a teatro a cui rinunciare perché c’era la partitella con gli amici e non so come è accaduto, ma ci siamo allontanati. Siamo diventati  due mondi a parte, lui davanti alla TV  a guardare la partita del momento, io in camera a leggere un libro. Allo stadio non ci sono andata più e quando lui aveva il calcetto io  uscivo con le amiche. Aveva smesso di spiegarmi le regole del gioco e le partite importanti le andava a vedere al Pub. E alla fine ognuno è andato per la sua strada.

 Mi sono sempre domandata cosa rappresenta il calcio per tanti  uomini, qualcuno ha cercato di spiegarmelo, qualcun altro ci ha scritto un libro. E va bene, va bene tutto, il sogno, l’agonismo, l’ambizione, la memoria dell’infanzia e della gioventù, lo spirito di gruppo e tante altre cose ancora, diverse per ognuno.

«Ma l’amore no!» ho detto rabbiosa « di quell’amore sono gelosa, di quella luce che brilla negli occhi  dopo una partita vinta, di quell’urlo orgasmico che segue un goal, di quell’ansia prima di un incontro, di quella sofferenza dopo una sconfitta! Quante volte mi sono sentita messa da parte per una partita di calcio».

«Io non amo il calcio» mi ha risposto Mauro, mentre chiamava  il cameriere per ordinare il dolce.

«Non dirmi che non nutri una passione per qualcosa» gli ho domandato.

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«Mi  piace viaggiare, leggere, andare a teatro, guidare la moto, mi piace l’arte e la musica, il moto GP, andare al cinema. Mi piace nuotare e adoro il buon vino e la buona cucina e mi piacciono le donne belle e intelligenti come te».

 Avrei dovuto capirlo che se non era il calcio era la moto, ma lui mi stava accarezzando la mano  e mi guardava con adorazione e…

Accidenti!